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martedì 20 dicembre 2011

Five roses


Quando vidi la bottiglia, lessi distrattamente l’etichetta e feci una rapida associazione con il “four roses”. “Strano”, mi dissi,  “un bourbon a tavola? Sono capitato in una cena di alcoolisti?”. 
Eppure conoscevo bene gli amici che mi avevano invitato  in quel bellissimo giardino.”Sarà per il dopo” mi dicevo. La cena era in piedi, come si conviene nelle sere estive in giardino. Il piatto di plastica nella mano destra che fatalmente si piega sotto il peso del trancio di pizza e di qualche altra cosa. Devi essere un contorsionista per non far cadere tutto. Nella stessa mano il finto coltello, ovviamente di plastica, che non taglierebbe  neppure il burro. Il bicchiere nell’altra, rigorosamente in bilico anche lui. E’ una delle occasioni in cui ti rendi conto di quanta necessità ci sarebbe di una terza mano. Il pane non ce la facevo a tenerlo. Dovevo riorganizzarmi. Il tovagliolo, ripiegato, era riposto provvisoriamente in tasca. E mentre si è in equilibrio precario arriva sempre il ritardatario che ti saluta  tendendoti la mano.  Per risposta un cenno del capo e un sorriso “mi manca anche la quarta mano, le altre tre sarebbero già impegnatissime” sorrido.  Va bene lo stesso, la compagnia era piacevole, la musica anche. E, come in molte cene in piedi nelle serate estive, non si parlava si cose serie. Finalmente, solo amene facezie. Finchè uno degli amici mi si avvicina con la bottiglia incriminata e mi riempie il bicchiere all’orlo. Nel frattempo avevo guadagnato un gradino di cemento sul quale avevo riposto un po’ di cose e stavo tentando disperatamente e senza esito di tagliare il mio pezzo di pizza. Non ho riletto l’etichetta perché pensavo di sapere. Devo averlo guardato proprio male. “Non ti piace il rosato?” . Osservai con attenzione e mi resi conto del cambio di numero, non four, ma five. Pur non sapendo altro, sorrisi. “Non conosco questa marca”- tralasciando l’equivoco ovviamente -  “Sei in Salento da una vita e non conosci il five roses? Inconcepibile”. Ovviamente mi informai in seguito, giusto per non rifare la figuraccia di quello che arriva dal nord e non si rende conto di dove si trova. Per caso, nella libreria di una preziosa amica, trovai un libretto che diceva di non ricordo quale anniversario del rosato.
 Le cantine Leone De Castris furono fondate nel lontano 1665. Nel 1943 proprietario degli oltre 10.000 ettari di oliveto e viti era l’avvocato Piero Leone Plantera (Pierino), marito dell’erede del casato, Maria Lisa De Castris Di Lemos. E  quell’anno l’Italia era spaccata in due. Il ricco e produttivo nord devastato dalla guerra, con i tedeschi che occupavano, i partigiani che rendevano loro difficile la vita, l’esercito italiano sbandato e tutte le situazioni che ne derivavano. Mentre al sud c’erano gli alleati.
 L’avvocato Pierino doveva comunque vendemmiare, anche se la situazione era drammatica. I clienti del suo vino erano piemontesi, liguri, francesi. E ordini non ne arrivavano. L’annata era buona, ottima. In più, mancavano gli uomini per la vendemmia. Sbandati, fuori Italia, abbandonati anche dal Savoia re d’Italia – periodaccio anche per l’allora  principino, lo choc per lui fu tremendo,   infatti in futuro passerà il tempo a sparare dalla sua barca contro qualche austriaco. Poi si darà al videopoker e alle signorine. Ma questa è altra storia.-  
 Insomma, una situazione da incubo.
Non si perse d’animo Pierino. Con una decisione improvvisa ed  imprevista e soprattutto mal vista dagli altri latifondisti, decise di far lavorare le donne con lo stesso salario degli uomini. Non solo. La moglie Lisetta si occupò dei  figli delle lavoranti creando nella masseria una sorta di asilo in cui accudiva i bimbi e, cosa più importante, li nutriva. E ancora una decisione fuori da ogni convenzione dovette prenderla l’Avvocato. Decise che non avrebbe vinificato rosso da taglio per i vini del nord - spesso un po’ deboli. Slavati come camice verdi lasciate troppo al sole –  No, avrebbe prodotto vino rosato. E lo avrebbe imbottigliato. Era proprio pazzo quell’uomo. Nessuno in Puglia imbottiglia. Il rosato poi, roba da donnicciole.  Pazzo ma caparbio. Andò avanti.  Rimanevano piccoli problemi. Non c’erano bottiglie. L’industria era al nord, qui non si produceva nulla. E dal nord non arrivava uno spillo. Ho letto della mancanza di fiammiferi per esempio. Si ingegnarono utilizzando i bossoli per farne accendini.  A Brindisi, in quel tempo, c’era la base americana. E quei soldati bevevano fiumi di birra, e gettavano le bottiglie dove capitava. Pierino, aiutato da amici, pagò alcuni ragazzi a Brindisi e a Bari perché le raccogliessero e le inviassero a Salice Salentino. E ancora, la tipografia non poteva fare etichette. Non c’era carta. L’avvocato si rivolse agli americani e li convinse a fornirne una certa quantità. Anche questa era fatta. Si vendemmiò, si vinificò un ottimo rosato e si imbottigliò. Rimaneva un problemino di poco conto. Se non arrivano dal nord a comprare, chi diavolo avrebbe  acquistato? Il cinque rose – questo il nome originale, perché la tenuta omonima era la migliore - era veramente speciale. Decise di dare due grandi feste. Invitò tutta la Lecce che contava e gli alti comandi dell’esercito liberatore. Offrì il suo rosato. Qualche giorno dopo arrivò in azienda una jeep. Ci fu una rapida trattativa che si concluse con l’ordine di 35.000 bottiglie  per le truppe americane. Avrebbe sostituito almeno in parte la birra. “Però il nome dovrebbe essere più americano” fu la richiesta.  Da allora la produzione non si fermò più. Oggi l’azienda è florida e continua a produrre Five roses.

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